Grande Aulodia (1970)
Widmung (1967)
Concerto per violino (1969)


Quando venne eseguita nel 1971 al festival di Royan, uno dei più prestigiosi in Europa in quegli anni, la Grande Aulodia suscitò nei circoli dell’avanguardia grandi discussioni sollevate da chi, accecato dalle «scarlattine semestrali della moda», come le chiama Boulez, accusava la nuova partitura di Maderna di essere musica non attuale, musica «dell’altro ieri». E’ molto strano che si potesse pensare questo di un compositore che sul piano dell’invenzione lessicale e dei mezzi tecnici impiegati è sempre stato all’avanguardia; di uno dei pionieri che negli anni ‘50 a Darmstadt, insieme a Berio, Nono, Stockhausen, Boulez e Pousser ha contribuito alla ricerca di un ideale comune di arte nuova; di un musicista considerato maestro da tutta una generazione di compositori di lui poco più giovane e che oggi sempre più viene riconosciuto come uno dei maggiori compositori del Novecento.
L’equivoco in cui incorse chi accusava la Grande Aulodia di “vecchiume” (ma le stesse accuse venivano rivolte a tutta l’ultima grande produzione sinfonica del compositore) penso fosse dovuto all’uso che Maderna ha sempre fatto dei nuovi “vocaboli” e delle invenzioni tecniche più ardite: mai fini a se stessi o legati a tendenze del momento ma sempre subordinati, citando Mila, a «un preciso intento di comunicazione, secondo un rapporto tra contenuti espressivi e mezzi tecnici che è praticamente quello tradizionale di ogni grande compositore del passato. E naturalmente, del presente e dell’avvenire». Maderna - si sa anche attraverso sue esplicite e forse anche, per quegli anni, provocatorie dichiarazioni - non ha mai escluso dalle sue opere le categorie dell’affetto e dell’espressione. In questo contesto torna ad acquistare senso e legittimità la melodia, che più di ogni altro aspetto del discorso musicale ha subito dagli anni ‘50 in poi traumi e causato un mare di equivoci.
«Primauté à la mélodie. Elément le plus noble de la musique, que la mélodie soit le but principal de nos recherches. Travaillons toujours mélodiquement...» scrive Messiaen nel 1944 iniziando l’ottavo capitolo del suo Technique de mon langage musical. E Maderna più di ogni altro condivideva queste idee: la melodia è per lui il momento centrale della creazione musicale, l’elemento con funzione ordinatrice, non solo dell’armonia ma dell’intera forma. Già quattro secoli prima di Messiaen, nel Cinquecento - il periodo di massimo splendore della polifonia - il trattatista svizzero Enrico Glareano nel suo Dodecachordon proclama l’assoluta supremazia della melodia. Distinguendo due categorie di musicisti, il Phonascus, il puro inventore di melodia, e il Symphoneta, cioè l’abile costruttore di armonie, il Glareano rivendica la superiorità del primo sul secondo, in quanto l’arte del Symphoneta’ è solo un problema di dottrina, conoscenza e tecnica e quindi si può imparare, mentre Phonascus si nasce: non c’è scuola che possa insegnare ad inventare una buona linea melodica.
Le melodie di Maderna, citando ancora Mila, «vanno ascoltate in purezza e semplicità di spirito» - «senza pregiudizi, con cuore aperto e mente vigile», scrive Maderna a conclusione di un programma di sala del ‘54 - «persuadendosi che non c’è da venire a capo di nessuna astruseria, di nessuna complicazione cerebrale: questa è una musica d’avanguardia che si affida quasi unicamente ai valori della comunicazione melodica e, subito dopo, alla suggestione del timbro».
Il lirismo che apparirà evidente all’ascolto delle tre composizioni proposte e che trova nella melodia il suo mezzo espressivo più immediato, sgorga fresco e copioso in tutta la produzione del compositore veneziano, ed è tradotto nelle sue partiture con una tecnica raffinata e un artigianato molto sofisticato. Nel programma di sala già citato Maderna afferma la sua convinzione «che la forza lirica del dominio del mondo e l’estrema precisione dell’espressione non siano opposti, ma equivalenze, che si sollecitano reciprocamente».

La Grande Aulodia, per flauto e oboe soli con orchestra utilizza nel titolo il termine con cui l’autore aveva designato cinque anni prima una composizione per oboe d’amore e chitarra ad libitum, l’Aulodia per Lothar . Gli antichi Greci chiamavano aulodìa il canto della voce umana accompagnata dall’aulòs, uno strumento sicuramente ad ancia, forse ad ancia doppia, come il nostro oboe. L’aulodìa di Maderna è invece un canto strumentale, realizzato dall’aulòs.
Nella Grande Aulodia i solisti sono due, un flauto e un oboe; i due musicisti alternano vari strumenti della stessa famiglia: il flautista suona anche il flauto in sol, più grave del flauto in do, un flauto in mi bemolle, più piccolo e assai raramente usato, e un ottavino, ancor più piccolo e acuto; l’oboista, oltre al normale oboe, suona l’ oboe d’amore e il corno inglese, entrambi più gravi, e la musette, variante campagnola e più acuta dell’oboe. L’orchestra, di grandissime proporzioni, ha gli archi divisi in tre sezioni uguali, disposte in modo da poter muovere il suono nello spazio passando da una all’altra (sono di quegli anni i primi esperimenti di movimento del suono in quadrifonia nello studio di fonologia musicale della RAI di Milano, dove Maderna lavorava assiduamente), i fiati “a quattro” e una smisurata sezione di strumenti a percussione per la quale sono impegnati ben otto esecutori.
I due solisti sono gli unici protagonisti della prima parte: si presentano, uno alla volta, con un lungo suono, un la naturale. Poi l’oboe sale di un semitono e il flauto di un semitono sopra l’oboe e ancora l’oboe un semitono sopra il flauto: una specie di alba del suono, che nasce a poco a poco, dal nulla; un suono primordiale che cresce e si differenzia così come un seme diventa stelo, foglia e fiore («la rappresentazione della natura nel suo farsi» direbbe Webern), che prova a muoversi come una prima forma di vita che saggi le sue capacità (mi viene in mente l’inizio del film 2001 Odissea nello spazio del grande Kubrick), finchè dall’oboe sgorga la prima sinuosa melodia.
Solo alla fine di questa i tre gruppi d’archi dell’orchestra attaccano un pezzo con ritmo ternario, contrassegnato dall’indicazione «Wienerish»: quasi un valzer viennese filtrato dalla lente deformante di Strauss, Mahler e poi soprattutto Berg, con il suo Concerto per violino, «quei ritmi di valzer pesantemente impastati nel grassume di un’orchestra rauca e attaccaticcia, che evocano l’immagine di un angelo prigioniero del fango» (ancora una volta Mila). L’intero pezzo viene poi ripetuto pianissimo, con sordina e in rallentando.
Inizia un nuovo episodio in ritmo ternario in cui i due solisti si alternano con leggeri e spensierati svolazzi, dapprima accompagnati solo da tre violoncelli a cui si aggiungono a poco a poco tutti gli archi, sempre più invadenti, finchè i solisti vengono sommersi e costretti al silenzio dall’entrata del resto dell’orchestra. Questa, dopo momenti di violenti accordi di ottoni e percussioni, si esaurisce in un sinuoso movimento in diminuendo di clarinetti e fagotti nelle regione grave.
Inizia a questo punto la parte centrale del pezzo: un lungo episodio in cui il direttore con segni convenzionali e, naturalmente, utilizzando le parti scritte per i solisti e l’orchestra, “compone” con una certa libertà direttamente dal podio, stabilendo velocità e densità dei materiali, ordine di entrata dei diversi gruppi e quindi agendo sul timbro, connotando il rapporto fra solisti e orchestra (che non può ad ogni modo essere stravolto rispetto a quanto immaginato dall’autore), dando insomma forma al pezzo. Maderna, in un articolo del '65, affrontando il problema delle “forme aperte” sostiene che «l'interprete deve intervenire nella struttura stessa dell'opera, rivelare secondo il proprio giudizio questo o quel possibile aspetto dell'opera... Le opere aperte, mobili, sono un'avventura necessaria del pensiero creativo del nostro tempo, al quale bisognava logicamente arrivare... conducono ad una glorificazione della forma dunque e non alla sua negazione». “Forme aperte” di questo tipo sono molto frequenti nelle sue opere dell’ultimo periodo.
Raggiunto un «massimo di eterofonia» - come indica Maderna - durante il quale tutta l’orchestra è coinvolta nell’esecuzione di frammenti che si sovrappongono casualmente, e dopo un breve silenzio, riaffiora «suadente», «delicato» e «galante» (sono aggettivi che l’autore ha posto in partitura) il canto del flauto solo, che dà inizio alla terza ed ultima parte del pezzo. Su una lunga fascia di note tenute dall’orchestra galleggiano i due solisti, uniti in una dolcissima «dialodia», usando il titolo di una delle ultime composizioni di Maderna per due strumenti a fiato soli.
Nelle ultime battute, quando nell’orchestra restano solamente gli archi, i due solisti continuano «con nessun tempo, come in una estasi interiore» e gli accordi degli archi sono soltanto «un miterioso alone» che li circonda e che «si può fermare in ogni istante»: il tempo stesso si ferma, la materia evapora in un momento di alta spiritualità che conclude la “vicenda” di un confronto fra l’individuo, il poeta, sdoppiato nei due solisti, e ciò che gli sta intorno: dapprima l’individuo è solo, poi estraneo e schiacciato, poi complementare e fuso in una perfetta unione per terminare riappacificato ma nuovamente solo.
Questa che ho chiamato “vicenda” e che potrebbe connotare la Grande Aulodia come una specie di «poema sinfonico dell’anima» è una costante del pensiero di Maderna di quegli anni e quindi della sua produzione; prima di passare a una breve descrizione del Concerto per violino cerchiamo di capire più a fondo di che cosa si tratta. Questa breve digressione renderà anche più chiaro il rapporto solista/orchestra di entrambe le partiture.
Durante un’intervista in occasione dell’esecuzione del Concerto per violino del 28 maggio 1970 alla Saarländischer Rundfunk, Maderna risponde in questo modo a una domanda sul rapporto solista/orchestra: «Una cosa che mi ha impegnato sempre più negli ultimi anni è la rappresentazione del poeta, dell’artista, di un uomo che è solo e tenta di convincere gli altri, di portarli verso le sue idee, i suoi ideali» (pensiamo anche ad Hyperion, di pochi anni precedente, l’opera problematica alla quale Maderna non ha mai smesso di pensare e che ha come punto centrale la visione poetica espressa sopra).«Ma i suoi ideali sono così alti, buoni e tolleranti che la gente non è ancora capace di capirli, perciò tenta di distruggere il profeta»; e allora l’orchestra «va contro» al solista, «ma a volte ne resta affascinata, a volte sembra quasi che gli vada dietro, che si sia convinta; ma poi subito c’è una resistenza».
E allora noi troviamo nella partitura del Concerto per violino indicazioni come «il direttore accompagna liberamente il solista», in un momento in cui la sola orchestra d’archi riverbera i suoni del solista ripetendoli come un’ eco sovracuta, ma anche come «orchestra interrompe. Solista attacca subito dopo»; oppure: «dopo il pizzicato [del solista] l’orchestra risponde brutalmente», «entrate perentorie dell’orchestra».
Ancor più significativa per illuminare il rapporto solista/orchestra è la lunga nota introduttiva che Maderna ha anteposto alla partitura della Grande Aulodia, come spiegazione della zona centrale del pezzo; ne citiamo una parte: «Di qui in poi i frammenti [orchestrali] separeranno gli interventi della musette... attaccando sempre subito, oppure, “contrastando”, potranno inserirsi nei “soli” della musette brutalmente, senza badare a pause o respiri del solista, il quale ultimo dovrà continuare imperterrito». E poco dopo: «il “solo” a battuta 174 bis deve venire “aggredito” dal frammento [orchestrale] N...».
Mila, presentando in una rubrica radiofonica il primo Concerto per oboe, così descrive il rapporto oboe/orchestra in quel pezzo, rapporto che si rivela una costante della poetica maderniana: «gli intermezzi orchestrali ... aggrediscono il canto d’un solista, sono “gli altri”, il mondo esterno, la caotica e disumana realtà contemporanea che attraversa la vita del poeta».
O ancora, per dirla con Valery: «l’enfer c’est les autres».

Il violino è lo strumento con cui Maderna si è avvicinato alla musica: aveva cominciato a studiare a quattro anni e pare studiasse 12 ore al giorno, con un chiodo piantato nella tastiera per abituare la mano a tenere la giusta posizione: “Brunetto”, il bambino prodigio, a 12 anni si era esibito in pubblico nel concerto di Max Bruch e pochi anni dopo, avrebbe diretto al Teatro alla Scala e all’Arena di Verona.
La partitura del Concerto per violino inizia con due pagine che possono essere eseguite oppure omesse a piacere del direttore (qui sono state eseguite): due pagine in cui il direttore può scegliere l’ordine di entrata dei cinque gruppi in cui è divisa l’orchestra, può mescolarli o eseguirli uno dopo l’altro. «Si tratta di una specie di “introduzione all’introduzione”» scrive Maderna all’inizio delle “istruzioni” anteposte alla partitura e ha la funzione di presentare l’orchestra e di preparare all’ascolto, come la musica che può precedere una rappresentazione teatrale (queste due pagine sono indicate come A e A1, mentre la numerazione inizia dopo) .
L’introduzione orchestrale vera e propria ha una forma che per qualche verso ricorda l’inizio della Grande Aulodia: là erano i solisti a “far nascere” il suono dal nulla, qui è l’orchestra che inizia pianissimo, scura e indistinta, dal grave e con pochi strumenti, e che a poco a poco si illumina e cresce in spessore e volume fino all’esplosione dei fiati.
Solo dopo quasi cinque minuti (in questa esecuzione, ma possono essere meno o anche più) il violino solista inizia con la sua prima cadenza dal sol grave, la corda più bassa, il “suono dello strumento” non toccato dalla mano dell’esecutore, il suono originario che emerge dal silenzio: altra analogia con l’inizio della Grande Aulodia. E dal sol grave sale, durante la prima cadenza, fino al limite estremo acuto, «oltre la tastiera il più intenso possibile. Rimarrà solo la intensità senza il suono» annota Maderna in partitura. Questa prima cadenza viene dapprima accompagnata e riverberata dagli archi, come già detto, interrotta due volte da un crepitio degli ottoni staccatissimi (il poeta aggredito e smentito dalla brutalità del mondo che lo circonda) e quindi, accompagnata dalle prime parti degli archi dell’orchestra, “gonfiata” in un quartetto d’archi. Dilaga infine, scomparendo, nella seconda orchestra d’archi “in eco” (anche qui gli archi sono divisi, non più in tre, come nella Grande Aulodia, ma in due gruppi, uno posto sul davanti, in primo piano, e l’altro sul fondo dell’orchestra, “in eco”), che «incomincia (dapprima soli ed esitando) a risuonare elementi vaghi, poi via via più precisi della prima cadenza. A poco a poco si aggiunge anche la prima orchestra d’archi e il tutto diventa impetuoso e turbolento». Infine decrescono e, sempre poco alla volta, agli archi si sostituiscono in una specie di glissando timbrico gli strumenti a pizzico: un mandolino, una chitarra e tre arpe. Il percorso di questo intermezzo orchestrale è scritto in modo aleatorio ed è il direttore che ne stabilisce i contorni precisi e la durata invitando i singoli musicisti a suonare o ad interrompersi. Ritorna il solista nuovamente inserito in un quartetto, completato qui dal primo violino dell’orchestra, dal mandolino e dalla chitarra. Un complesso intervento strumentale che coinvolge l’intera orchestra conclude la prima parte del pezzo.
La seconda cadenza, che alterna pizzicati, suoni prodotti con la parte in legno dell’arco, armonici siderei e velocissimi arabeschi, viene anch’essa interrotta più volte da entrate «brutali» e «perentorie» dell’orchestra finchè si ferma su un suono acutissimo molto intenso (un la naturale). Qui il fragile violino, raccogliendo tutte le sue forze residue, resiste «disperato» (aggettivo con cui l’autore chiarisce ulteriormente il suo pensiero poetico e musicale) agli attacchi della prima orchestra d’archi e poi di tutti i fiati, per ben due volte, e solo quando si accorge di avercela fatta abbandona il suono su cui si era rifugiato, allenta la tensione in un diminuendo al pianissimo e con grandi salti raggiunge rapidamente il registro più grave, indugiando come per riposarsi sulla quarta corda, nuovamente solo. Può allora ricominciare il suo canto bizzarro e lievemente malinconico e non si preoccupa più per il nuovo intervento orchestrale: accordi della seconda orchestra d’archi in eco, quella in secondo piano, lontana, che si muove lentamente, rispettando il solista sopravvissuto in modo così eroico. Sembra quasi che lo stia ad ascoltare, seguendone i movimenti e fermandosi ogni tanto con delicatezza per non disturbare. E allora il violino può riposarsi definitivamente: si ferma articolando note staccate, acute e leggerissime, «come meccanismo che ha esaurito la carica»: è il trionfo della fragilità e della poesia.

Fra i due corposi pezzi sinfonici, troviamo qui Widmung, per violino solo, scritto nel 1967 per l’inaugurazione del Museo privato di pittura astratta di Nürtingen di Ottomar e Greta Domnick, che diventano verosimilmente i destinatari della dedica espressa dal titolo (Widmung significa appunto “dedica”).
Una ragione precisa ci ha indotto a far precedere il Concerto per violino da questo pezzo: Widmung è stato ripreso completamente nella seconda parte del concerto (dalla seconda cadenza alla fine). Se nel concerto assistiamo alla vicenda che abbiamo descritto, allo scontro o quanto meno alla difficoltà di comunicazione di due mondi opposti, «ognuno un caos, eppure ognuno con un alto tipo di organizzazione» (sono parole di Maderna), in Widmung il “poeta” è solo e non è minacciato da nessuno.
«Essere poeta non è una mia ambizione: è la mia maniera di stare solo» ha scritto Fernando Pessoa e i pochi pezzi solistici che Maderna si è concesso sono forse i luoghi in cui, senza dimenticare il messaggio poetico del suo amato Iperione, ogni tanto si rifugiava, lontano per un momento da «les autres» [Sandro Gorli, agosto ‘99].